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SIMBOLI E SANTI

Note dell'autore     english version

Il tema conduttore di questo ciclo di acqueforti è il rapporto, multiforme e a volte complesso, tra i simboli e i santi e prende spunto dalla tradizione  iconografica tra Rinascimento e Barocco, in cui i santi e le loro storie  sono una parte integrante.
I santi vengono perlopiù ritatti come candide e innocenti giovanette e come adulti barbuti e non per tutti era ed è facile oggi riconoscerne l’identità. Spesso l’unico modo per identificarli sono i loro simboli , o quelli che vengono chiamati, più propriamente,  gli attibuti iconografici che sempre li accompagnano, cioè gli oggetti  che tengono in mano o che stanno al loro fianco, gli  animali collocati vicino o i capi di abbigliamento. L’attributo per eccellenza che contraddistingue i santi-martiri è la foglia di palma, simbolo di sacrificio ma anche di trionfo sul Male e segno  della loro Redenzione.
Questi attributi traggono la loro origine dalle agiografie dei santi e dagli Atti e Passioni dei martiri  in cui sono raccontati, romanzandoli spesso con toni granguignoleschi,  il loro sacrificio e tutte le efferate torture e sevizie che l’hanno preceduto .  Tutta questa tradizione verrà raccolta e rielaborata nel 1265 da Jacopo da Varagine, frate domenicano e vescovo di Genova, nel libro chiamato  la Legenda aurea, molto diffuso nel Medioevo tanto da essere considerato uno dei primi bestseller della storia.  Questi  scritti  costituiscono la fonte e l’ispirazione di tutta la tradizione  iconografica europea  che elabora, sull’onda di una  dilagante devozione,  un codice identificativo per la rappresentazione dei  santi  , che avrà valore  dal Medioevo alla modernità. Questo codice  ha lo scopo  di consentire la riconoscibilità dei personaggi  sacri anche ai meno colti degli osservatori, perché  come scriveva Gregorio Magno “la pittura  serve agli analfabeti come la scrittura per chi sa leggere”.
Così, per esempio,  l’avvenente ed elusiva Fillide Melandroni, la prostituta nota in tutta Roma per la sua straordinaria bellezza, in Caravaggio diventa Santa Caterina d’Alessandriad’Egitto, per via del simbolo del suo martirio, quella ruota dentata strumento della sua tortura che, per miracolo, si spezzerà  salvandola . A seguito di questo fatto prodigioso, la santa verrà decapitata con la spada, altro suo attributo,  che infatti si trova nelle sue mani  mentre ai suoi piedi si trova l’immancabile foglia di palma.
In questi lavori il punto focale di questo rapporto si sposta decisamente dal santo al suo simbolo, lasciando che  quest’ultimo, nelle sue trasformazioni ed evoluzioni , evochi, richiami o semplicemente alluda al santo che rappresenta,  anche in sua assenza. È come se il simbolo avesse una propria vita autonoma e indipendente  dall’ immagine santa a cui è per tradizione legato e si ponesse al centro di un nuovo, visionario e surreale  racconto che pur sempre parla di lui, collocandosi  comunque nel grande alveo della millenaria narrazione iconografica .
Santa Caterina, giovane donna di rara bellezza,  era un’orfana di origine principesca , dedita allo studio della filosofia e delle arti liberali. Dopo la morte del padre, la giovane si convertì al cristianesimo  ed ebbe in sogno la visione della Madonna con il Bambino che le infilava l'anello al dito, facendola sponsa Christi, nel Matrimonio mistico spesso rappresentato in pittura( Guercino e Parmigianino).  Nel 305 l’Imperatore Massimino, per la sua fede pura ed irremovibile, la condannò al supplizio della ruota ma un fulmine la salvò. Quando le fu tagliata la testa, dal collo mozzato non sgorgò sangue bensì latte, simbolo della sua purezza. Elegante, colta, martire e vergine,  è una delle sante più amate nell’Europa cristiana.
Nell’incisione lo strumento della sua tortura non si trova al suo fianco (come vuole la tradizione)  ma in primo piano  ai piedi della santa, collegata intimamente  al  suo simbolo, che  costituisce  l’elemento fondativo della figura stessa.  Replicando se stessa verso l’alto, muta in un’altra struttura, come a proteggere simbioticamente  quella palma che le cresce vicino.  L’immagine termina con un libro a indicare la sua saggezza, ma anche l’idea che  i martiri sono i testimoni,  i veri interpreti e custodi del Verbo (vedi anche San Simone e San Bartolomeo) , mentre il volto sfaccettato racchiuso nel grosso volume rimanda alla triplice natura di santa, di martire e di donna.

Quando il futuro Sisto II  fu eletto vescovo di Roma nel 257 d.C, affidò a San Lorenzo il compito di arcidiacono, cioè di responsabile delle attività caritative nella diocesi  rivolte agli orfani, vedove e poveri. Un anno dopo, in seguito alla persecuzione dell’ imperatore Valeriano che colpiva i membri della gerarchia ecclesiastica,  lo stesso Papa fu martirizzato  insieme a quattro dei suoi diaconi; quattro giorni dopo, il 10 agosto, fu la volta di Lorenzo che fu bruciato vivo su una graticola posta sui carboni ardenti, che diventa insieme alla  tradizionale veste da diacono (dalmatica) suo attributo principale.
Nalla incisione lo strumento dela sua morte si  converte  in una complessa struttura reticolare che fa da basamento  e  sostegno ad una specie di  ecumenico abbraccio dalle linee classiche di un vuoto anfiteatro, spesso realmente  luogo di supplizio dei cristiani.

In alcune acqueforti,  il simbolo sembra assumere forme ipertrofiche tali  da  occupare quasi totalmente lo spazio prospettico: è  il caso di Santa Margherita d’Antiochia (attuale Turchia), che subì il martirio all’eta di quindici anni, nel 290 d.C.  La martire, in nome della fede  a cui si era consacrata, si rifiutò al Prefetto romano che la  per questo la denunziò come cristiana. In carcere,  nella notte che precede la sua esecuzione, viene visitata nella cella dal diavolo nelle forme di drago che la inghiottì. Margherita armata della sola croce squarcia il ventre del mostro e sopravvive al letale confronto. Da questo antico rito di iniziazione, un  passaggio  verso un livello di coscienza superiore, Margherita  da martire ne uscirà santa  e drago diventerà  il suo attibuto principale che sempre l’accompagnerà.
Nella incisione la santa non è colta, come vuole la tradizione (Raffaello e Giulio Romano), nel momento del trionfo sul Male ma nel pieno della lotta con un mostro che, però, non ha nulla di orrifico ma sembra essere un oggetto di scena (la chiavetta), destinato a svolgere comunque un ruolo già preassegnato  e funzionale alla drammatica rappresentazione.

Anche nella incisione di Santa Barbara il  suo simbolo, una la torre cilindrica, domina la scena. Nella torre, lei bella, vergine e votata solo a Dio, l’aveva rinchiusa il padre Dioscoro, fanatico pagano,  che la denunciò al governatore romano per sua fede indomabile. Dopo inenarrabili sevizie e patimenti, è lo stesso genitore a sferrare il colpo di spada che la decapiterà. Appena la testa di Barbara cade in terra, un fulmine seguito da un enorme boato, incenerisce padre scellerato. Per questo è considerata la protettrice degli artiglieri, dei vigili del fuoco e dei minatori ed  è per questo che i depositi di munizioni portano il suo nome.
 Nella incisione, la santa sembra essere nel mezzo di un lotta cruenta con la torre  nella quale è stata segregata dal genitore.   Armata di quella stessa spada con  cui sarà giustiziata come cristiana, si apre un varco tra le due parti che stanno per cedere alla sua spinta poderosa. Ma la sua testa è essa stessa una torre a ricordare che, anche se Barbara riuscirà nel suo intento, dovrà fare i conti con un nemico ‘interno’,  altrettanto solido e resistente quanto la sua prigione.

Sant’Andrea, tra i primi seguaci di Gesù e apostolo, come “pescatore di uomini annunciò il Vangelo in Siria, in Asia minore e in Grecia. E qui a, a Patrasso, venne martirizzato intorno al 60 d.C, legato alla croce che porta il suo nome (una croce a forma di X) , perchè non avrebbe mai osato eguagliare Cristo nel martirio. Nella incisione la  croce è posta al centro e davanti alla stessa figura, contrariamente alla tradizione in cui sta sempre dietro al santo o  al suo fianco (Rubens e la statua di Duquesnoy in San Pietro). ll santo è costretto perforare con delle gallerie  il suo simbolo per proclamare la sua esistenza. Una X  è presente anche nella formella  ai suoi piedi e anche nel cielo, a suggerire all’osservatore  come il significato del simbolo nel tempo sia cambiato: dall’ambito religioso e martilologico della tradizione cristiana  è trasmutato in emblema dell’ignoto e della enigmaticità dell’esistenza (De Chirico, Composizione metafisica). Anche i vagoni ferroviari sono una citazione del moderno in arte  (Magritte, Il tempo trafitto) ma anche una constatazione  che quel simbolo appartiene prosaicamente anche alla nomenclatura del mondo ferroviario.

Sant’Erasmo  fu  vescovo di Antiochia e martire al tempo di Diocleziano, nei primi anni del IV secolo. Nell’incisione il suo simbolo, l’argano a manovella, occupa lo spazio centrale. Montato su una imponente struttura esso raccoglie, arrotolandoli,  gli intestini del martire condannato all’eviscerazione (l’asporartazione degli organi interni), un supplizio spesso rappresentato nella tradizione con inevitabile toni truculenti ed efferati (Sebastiano Ricci, GiacintoBrandi o Nicolas Poussin).  La condanna sembra alludere alla volontà dei persecutori di strappare dal corpo quella fede di cui non capivano  il rivoluzionario messaggio. I lunghi pali sono un’esplicita citazione  della Leggenda della vera croce  di Piero della Francesca, quando l’ebreo Giuda viene estratto  dal pozzo in cui era stato gettato, per convincerlo a rivelare il luogo dove era sepolta la croce di Cristo. Gli intestini del martire però trapassano il suo corpo e sembrano provenire da una cavità molto più profonda,  sottostante il marmoreo sarcofago su cui è stato abbandonato il corpo,  mentre la sua anima, con ampie volute,  volteggia già lontana nel cielo verso quel Paradiso tanto agognato.

Sant’Elena è il personaggio principale  della sopracitata  Leggenda della vera croce e con la croce come simbolo  è sempre rappresentata.  Anziana madre dell’imperatore Costantino, intraprende, nel 327-328,  un lungo e pericoloso viaggio in Terra Santa nei luoghi della Passione di Gesù,  inaugurando quello che diventerà uno dei pellegrinaggi più famosi della storia. Come un’archeologa ante litteram, vuole ritrovare dopo più di due secoli il patibolo su cui morì Cristo. Lo ritroverà e sul luogo del Calvario erigerà la basilica del Santo Sepolcro. Porterà un frammento a Roma dove dove farà costruire la basilica di Santa Croce in Gerusalemme per costudirlo .
Quello di Sant’Elena non è solo un pellegrinaggio e non è solo una ricerca:  è l’atto consapevole della necessità fondamentale della costruzione simbolica della nuova religione, che individua nella croce il suo significato più distintivo e più profondo.  In questo senso, Sant’ Elena, proprio con quel gesto di ricercare la croce e di innalzarla a simbolo assoluto del Cristianesimo,  è una “costruttrice” del nuovo Credo e con questo aiuta la nuova religione ad affermarsi definitivamente nella Storia.

Altro caso di ipertrofia del simbolo osservato in Santa Margherita,  si trova nell’incisione dedicata a San Floriano. Il soldato dell’esercito romano  è stato gettato nel fiume con una  macina da mulino al collo nell’alta Austria, per aver difeso i cristiani. La macina è diventata una mastodontica coppia di ruote di frantoio in preda ad un irrefrenabile moto inerziale, che porterà  il santo alla tragica fine. La scena descritta per l’ambientazione (il ponte in tronchi di legno e il fiume) è un debito esplicito al Martirio di  San Floriano di Albrecht Altdorfer, anche se in questa non c’è traccia della rassegnata accettazione del santo nella sua giovanile nudità. Nella scena c’è una ambiguità di fondo. Un legionario è trascinato dal moto invincibile delle possenti macine a cui è del resto vincolato ma, nello stesso tempo, non si sa se cerchi disperatamente di governarne in qualche modo il moto o invece lo assecondi , conscio del suo destino, verso la tragica fatalità che lo aspetta. L’ambiguità forse deriva dal fatto che nel sacrificio  dei santi, per noi moderni,  è difficile distinguere  tra  una Imitatio Christi portata alle estreme conseguenze e la tragica e mistica pulsione  verso l’immolazione e l’annullamento di sè. 

Questo tema ricorre ache nel San Sebastiano. Ufficiale dell’esercito romano e protettore dei cristiani, nudo come Cristo è martirizzato dalle frecce, a cui sopravviverà per miracolo. Per questo  è invocato come santo taumaturgo in caso di malattie o epidemie, spesso insieme a San Rocco, altro santo guaritore. La tradizione  (per tutti il Mantegna e Reni) lo rappresenta con il suo giovane corpo eburneo e dalle forme perfette, sereno  e trionfante su un martirio che dovrebbe essere micidiale. Nell’incisione  che porta il suo nome,  appeso come Cristo alla colonna,  c’è quel che resta di un nero corpo catafratto, tragicamente prostrato dall’agonia e ormai quasi privo vita. Sopra la colonna a cui è legato , ci sono delle volute tentacolari, un motivo simbolico che vuole alludere al potere della Chiesa, la cui forza  è fondata sul  sacrificio dei santi, la cui testimanonianza (martiri in greco significa “testimoni”)  è fondamentale per la trasmissione del suo messaggio religioso al mondo intero,  che avviene attraverso una sinuosa e inquietante antenna.
 Nell’altra versione il santo, crivellato dalle frecce su un campo di battaglia, è letteralmente pietrificato dal dolore. Forse lo aspetta un crollo mortale o forse riuscirà ad alzare almeno la testa verso quel piccolissino simbolo di redenzione sulla montagna in lontananza.

Di  San Clemente, vescovo di Roma e quarto Papa  e Padre della storia della Chiesa, fu martirizzato alla fine del I secolo d.C., ma nella incisione  non c’è nessuna traccia della sua figura.  Solo il suo simbolo, l’ancora,  campeggia nella desolazione di un deserto. La sua presenza è solo evocata dai paramenti con insegne del capo della Chiesa e dal ponderoso messale,  da cui fuoriesce  l’estremità di un pastorale. La grande ancora di ferro ricorda il suo sacrificio, quando gli fu legata al collo prima di essere  gettato in mare da una nave. La leggenda vuole che nel luogo del martirio, il mare ogni anno si ritirasse per alcune miglia,  tanto da rivelare  il sacrario con le sue spoglie, meta incessante di devoti pellegrini.

Anche di Sant’Apollonia non c’è alcuna evidenza, ma è il suo simbolo, il dente, a parlarci di lei. La santa fu vittima di una sommossa popolare contro i cristiani, sobillata da un indovino pagano nella Alessandria d’Egitto del III secolo. Apollonia, un'anziana donna cristiana nubile, che aveva aiutato i cristiani e fatto opera di apostolato, venne catturata con gli altri e venne percossa al punto di farle cadere i denti. La sua Passio racconta il suo supplizio preceduto da torture  durante le quali le furono strappati tutti i denti con le tenaglie. Lei stessa si gettò sul rogo che la attendeva per evitare altre sevizie.
Il molare, suo personale attributo, femminilmente ingentilito,  sembra assediato da una torma scomposta di tenaglie e chele seviziatrici. Il candore  del simbolo e il suo isolamento sono il segno manifesto della sua  spirituale  superiorità e insieme della sua santa intangibilità.

A volte al simbolo accade che si moltiplichi. È il caso di Santa Agata, patrona di Catania,  martire durante le persecuzioni sotto l'imperatore Decio nel  250d.C. Il racconto del suo sacrificio  narra che tra le tante torture le fossero strappati o tagliati i seni.  È per questo che nella tradizione iconografica, da Piero della Francesca a Zurbaran, la santa  è rapprentata con la palma del  martirio  in una mano mentre con l’alta regge un piatto su cui si trovano i seni recisi, come una piccola natura morta.  In questa incisione i simboli si sono quadriplicati  così come le braccia, rendendo  quasi inevitabile un accostamento con la dea indiana  Kalì e la  greca Demetra di Efeso, in una rappresentazione sincretica di una vergine martire cristiana che è, nello stesso tempo, una divinità pagana misteriosa e potenzialmente pericolosa, come il vulcano nello sfondo. La moltiplicazione del simbolo è tanto irrefrenabile,  che se ne osservano visibili cenni anche nelle cupole  delle torri della cinta muraria e nelle alte nuvole del cielo.

Anche in San Simone si assiste allo stesso fenomeno della moltiplicazione del simbolo. Simone, apostolo e santo, è un pescatore di Galilea, da qui il simbolo della barca. Diventato evangelico “pescatore di uomini”, (anche il libro è un suo simbolo) subisce il martirio nella lontana Armenia. Il suo corpo viene fatto a pezzi con una sega, probabilmente come quella dei boscaioli di un tempo. La triplicazione del simbolo vuole sottolineare l’accanimento del martirio di un venerando santo trasmutato  in albero, le cui radici affondano  proprio in quella barca  in riva a quel lontano lago, che  lasciò per  sempre seguendo la parola di Gesù.

L’Apostolo Pietro è il prescelto,  la “pietra” su cui sarà edificata la Chiesa, il custode  delle ”le chiavi del Regno dei cieli” ;  venne crocefisso a Roma , per sua stessa richiesta a testa in giù, fra il 64 e il 67 d.C., durante le persecuzioni anticristiane ordinate dall'imperatore Nerone.  La presenza di San Pietro nell’incisione  viene evocata dall’accostamento  delle chiavi, suo simbolo principale e la cupola della chiesa più importante della cristianità. Le chiavi inserite nelle toppe sembrano alludere al fatto che non aprano il regno dei cieli ma  qualche misterioso segreto  costodito nella Sacra Istituzione, mentre quella del santo sembra  poter schiudere le insondabili profondità del pensiero teologico di quella Chiesa di cui è il fondatore.

San Dionigi sembra non avere simbolo ma in realtà è la sua stessa testa, che ha tra le mani,  ad essere il suo caratteristico emblema. Il santo è stato vescovo di Parigi (Saint Denis) e martirizzato a Montmartre (Monte del martirio) nella seconda metà del III secolo d.C. È un santo cefaloforo, cioè un santo di cui si narra  nelle agiografie che, dopo la decapitazione, avrebbe raccolto la propria testa mozzata, reggendola con le mani. La postura dell’immagine del santo,  goticamente paludato  sotto un nero mantello, con un piede puntellato su un basso parapetto di pietra, è un  richiamo diretto al San Floriano di Francesco del Cossa, che era collocato nello scomparto sinistro in alto del Polittico Griffoni.  Il santo regge sul ginocchio destro il proprio capo con  mitra vescovile  e maschera antigas. Difronte alla devastante repressione romana,  i primi cristiani furono dei combattenti non violenti di smisurato coraggio e dovettero affrontare le mortifere  e velenose  persecuzioni di un nemico che non riusciva a capire le ragioni profonde della loro fede. La maschera di San Dionigi è a sua volta il simbolo  di questa paziente e ferma resistenza cristiana, che permetterà alla nuova religione di trionfare sui persecutori.

La tradizionale rappresentazione di Santa Lucia non è diversa da quella di Sant’Agata (spesso ritatte insieme). Lucia nacque da una famiglia nobile verso la fine del secolo III a Siracusa, allora capitale della Sicilia. Devota di Sant’Agata e denunciata come cristiana, nel martirio le sono stati strappati gli occhi che mostra come suo simbolo in un piatto o una coppa. Per l’incisione il punto di riferimento iconografico è ancora Francesco del Cossa, che ha ritratto Santa Lucia nello scomparto destro del polittico già citato. In questo quadro  la santa, con un’originalissima invenzione,  tiene nella mano sinistra uno stelo di fiore da cui fuoriescono  non due boccioli ma i suoi  stessi occhi. Quello stelo con gli occhi della santa si trovano anche nell’incisione, in un piccolo vaso trasparente vicino alla figura. Nella scena  rappresentata, la postura della santa e la scala  appoggiata al cornicione sono delle citazioni dalla Melancolia di Durer.  La martire,  priva della vista e con il volto nascosto  dai bendaggi che coprono la mutilazione, sembra voler  guardare attraverso  un altro occhio posato sulle sue ginocchia  (con al centro l’occhio di Horus)  per vedere quell’invisibile  che solo l’anima può vedere.

 Santa Cecilia, martire e patrona della musica, viene  quasi sempre rappresentata con  un piccolo organo portativo nelle mani o al suo fianco (Raffaello, Orazio Gentileschi), anche se il motivo di questa associazione rimane tuttora incerto.  Nata da una nobile famiglia a Roma, sposò il nobile Valeriano che la seguì nella nuona religione .  Insieme si dedicaroro alla sepolture dei cadaveri dei cristiani alla sepoltura dei cristiani allora proibita, e per questo arrestati e giustiziati, nel 230 d.C..
L’incisione  che la rappresenta è un esplicito omaggio all’arte di Arcimboldo, fondata sulla combinazione di oggetti di un’ unica area semantica, collegati  metaforicamente al soggetto rappresentato.  In questo modo l’immagine della santa è assemblata  unicamente  con un accumulo  di strumenti musicali, mentre il suo simbolo, le canne d’organo, si trasformano in una  specie di sonora quinta vegetale della scena.

Come altri santi (vedi Santa Agnese e Sant’Antonio) anche San Rocco ha per simbolo un animale, un cane. Pellegrino francese (da qui gli attributi del mantello, del bastone, del cappello e della fiaschetta)  è diretto a Roma, dove  cura  e guarisce i malati dell’epidemia di  peste che infuriava in Italia nella seconda metà del Trecento. Durante il viaggio di ritorno si ammala della terribile malattia e  si isola in una grotta per non contagiare altre persone.  A salvarlo dalla malattia e dall’inedia  fu un cane  che provvide quotidianamente a partargli del pane.  Il più invocato santo taumaturgo, spesso rappresentato con San Sebastiano,  è ritratto  nella tradizione, mentre offre alla vista dell’osservatore  la coscia nuda  a mostrare il bubbone  che gli è comparso vicino all’inguine. Nella incisione, il santo-viaggiatore  è bloccato nei movimenti dal morbo contratto e le sue ferite sono esposte come cavità di un vecchio tronco malato. Il cane salvifico, con l’insegna di San Giacomo, viene dal  cielo ed  è appena atterrato in suo soccorso portando quel pane che lo guarirà definitivamente.

Anche  Santa Agnese  ha come simbolo un animale, l’agnello, perché, come il piccolo animale simbolo a sua volta del sacrificio di Cristo, viene  sgozzata con un colpo di spada alla gola a soli 12 anni, nei primi anni del IV secolo.  Giovanissima  santa romana di nobili origini, prima della esecuzione finale  è  condannata al rogo come maga  ma le fiamme, per miracolo,  si divisero sotto il suo corpo e  i capelli le crebbero tanto da coprirne la nudità.  L’agnello tra le sue braccia ha le zampe anteriori legate, richiamo all’Agnus Dei di Zurbaran, ma ha anche le forme di una sonda spaziale che dalle profondità dell’universo  è  approdata sul pianeta ‘sbagliato’ e tra le braccia di una donna con cui condividere  un identico destino.

San Biagio, vescovo armeno, fu martirizzato nel 316, tre anni dopo l’Editto di Milano che concedeva la libertà di culto ai cristiani. I suoi torturatori  straziarono il suo corpo  utilizzando  dei pettini in ferro, che si usavano per cardare la lana. Un’ulteriore condanna sembra gravare sul santo, quella di portare gli enormi e pesanti strumenti di tortura sulla sue vecchie spalle, nell’ultimo tragitto che percorre appoggiandosi  ad un bastone che termina con due candele intrecciate (altro suo attributo), la cui fiammelle  sembrano  assecondare  il suo passo incerto e stanco.

San Cristoforo è come san Biagio un santo ausiliatore e patrono dei viaggiatori. Era un gigante traghettatore che un giorno aiutò un bambino a passare sull’altra riva del  fiume. Il gigante se lo caricò sulle spalle e cominciò il tragitto; ma più si inoltrava nel fiume, più il peso del fanciullo aumentava, tanto che con molta fatica  riuscì a raggiungere la riva. Lì  il bambino rivelò la propria identità: era Gesù e il suo peso che il gigante (Cristoforo in greco  significa “portatore di Cristo”) aveva sostenuto era quello del mondo intero salvato dal sangue di Cristo. Questo incontro straordinario  trasformerà Cristoforo in evangelizzatore e poi in martire.
 Ma forse in quell’attraversamento è accaduto qualcosa di inaspettato e di completamente imprevisto. Quel  viaggio così travagliato non è stato solo un difficile passaggio attraverso uno spazio fisico pericoloso ma anche un misterioso  passaggio  temporale. Il gigante, giunto all’approdo, da colosso che era  si  ritrova vecchio e ischeletrico, mentre il bambino si è trasformato in adulto ormai maturo. Tutte e due, però, non potranno sfuggire al tragico sacrificio  a cui sono destinati.

Sant’Antonio  era un eremita dell’Egitto vissuto tra III e IV secolo e fondatore del monachesimo cristiano. Come altri anacoreti  dell’epoca, abbandona la  corruzione della città e si rifugia nel deserto della Tebaide testimoniando la propria fede con una ascesi solitaria e radicale.  È proprio nel deserto che i suoi discepoli lo troveranno  privo di  coscienza  e coperto di piaghe e ustioni. Erano i segni della lotta con il diavolo  che era venuto a tentarlo con i suoi  mostruosi assalti.  Antonio vince le  brutali tentazioni del Maligno e le fiamme dell’inferno mostrando quel coraggio e quella fermezza che ebbero i  primi martiri cristiani. E per questo diventerà un santo molto amato e riconoscibile per via della tonaca monacale, del bastone a forma di T e del maiale, dal cui grasso si ricavavano quei linimenti, che erano l’unico rimedio contro quel  devastante  “fuoco” che porta proprio il suo nome.
Per la popolarità del santo taumaturgo,  Le tentazioni di  sant’Antonio diventeranno uno dei soggetti  più frequentati nella storia della pittura europea. Il tema della lotta tra il Male con le sue lusinghe e la sua proteiforme ferocia e la solitudine del santo, armato della  sola  fede, ha percorso la storia dell’arte dal Rinascimento fiammingo (Bosch, Brughel , Grunewald)  fino alle avanguardie del Novecento (Max Ernst e Dalì). Le tentazioni assumono forme fantastiche di  animali  ibridi, frutto di una contaminazione contro natura, dove ogni limite tra il mondo umano e animale è cancellato. Oggi, nel nostro mondo dominato dalla Tecnica,  quei mostri inevitabilmente  sono anche macchine  e bestie nello stesso tempo,  impegnate in  un violenta lotta intestina e del tutto estranee al santo, che, assorto nelle sue meditazioni,  è  finalmente libero da ogni  loro maligna minaccia.

Nel Vangelo Secondo Giovanni si racconta l’incontro tra Cristo e San Bartolomeo, chiamato nel testo Natanaele, avvenuto grazie all’amico Filippo. Vedendolo arrivare Gesù esclamò: “Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità”. San Bartolomeo chiese a Cristo come facesse a sapere chi fosse e lui rispose: ”Prima che Filippo ti chiamasse , io ti ho visto quando eri sotto il fico”. Questo riconoscimento inaspettato sembra toccare nel profondo il cuore dell’uomo: da allora il pescatore di Cana diventerà apostolo ed evangelizzatore in diverse regioni orientali, dalla Mesopotamia fino in India. Finché non giunge in Armenia dove, secondo la tradizione, sarà martirizzato attraverso lo scuoiamento. Per questo nell’iconografia il suo attributo è, oltre al libro, il coltello e la sua stessa pelle (Michelangelo, Giudizio Universale), a volte portata come un mantello (statua di Marco D’Agrate).
Nell’incisione,  San Bartolomeo subisce il martirio come fosse  proprio ‘quel fico’ sotto cui lo ha visto per la prima volta Cristo, forse vicino alle sponde del lago. A terra  i resti di una violenta scortecciatura, su un albero squassato da un colpo di ascia che l’ha spaccato i due parti, a testimoniare  come  sia stata dirompente, nella vita del Santo,  la potenza della Chiamata del Salvatore e della sua  Parola e come queste abbiano  definitivamente cambiato la sua vita, segnandone il destino verso il martirio e la santità.

San Girolamo è una delle figure più rappresentative e complesse della storia della Cristianesimo. Padre e dottore della Chiesa, San Girolamo fu teologo, biblista e tradusse in latino il testo biblico (la Vulgata); fu segretario di Papa Damaso I e  destinato a succedergli; monaco e anacoreta nel deserto siriano della Calcide. Nel 385 d.C. lascia Roma definitivamente  e si ritira a Gerusalemme in un convento  dedicandosi alla  studio ed alla meditazione.
Esistono due iconografie principali del santo: quella dell’ anacoreta solitario in preghiera, nel deserto o nella grotta di Betlemme, con un crocifisso, il teschio e la pietra con cui battersi il petto in segno di penitenza (Cosmè Tura, Antonello da Messina, Pinturicchio, Leonardo, Durer, Lotto);  e quella  del sapiente teologo, ritratto nel suo studio-biblioteca ad attendere alla traduzione della Bibbia (Van Eyck, Colantonio, incisione di Durer, Antonello da Messina).  In questo secondo caso viene mostrato con abito cardinalizio e con il galero (cappello), a volte gettato in terra come segno della sua rinuncia agli onori. In quest’ultimo contesto  spesso compare un leone. La leggenda narra che, al monastero in Palestina dove dimorava, irruppe un leone con una zampa ferita dalle spine, scatenando il panico nella piccola comunità. Invece di scappare impaurito come i suoi confratelli, il santo  avvicinò l'animale e lo curò; il leone si ammansì e come per dimostrargli gratitudine gli rimase fedele fino alla sua morte. Tra i manoscritti del suo studio, il santo tiene nella sua mano, poggiata sul Vangelo,  la zampa dell’animale ed entrambi sono trafitti dal chiodo del sacrificio di Gesù, simbolo di quella cristiana compassione, di  quella misericordia, di quella pietà che comprende  e accumuna  tutti gli esseri umani ma che si estende ben oltre, fino ad  abbracciare tutti gli esseri viventi sulla Terra, con cui gli uomini sono destinati a condividere lo stesso  effimero destino.

Santo Stefano era un ebreo  greco, (il suo nome in greco significa “coronato”) che aderì alla prima comunità cristiana formatasi a Gerusalemme.   Aveva una profonda conoscenza delle sacre Scritture e divenne anche il primo dei diaconi, scelti dagli Apostoli  perché li aiutassero nel ministero della fede, provvedendo ai bisogni delle persone povere,  degli orfani  e delle vedove . Nella prima metà del I secolo,  i cristiani  erano  solo una delle tante sette che popolavano il mondo ebraico e Stefano ne faceva parte anche come attivo predicatore che tentava di convertire gli ebrei che arrivavano nella città. Per questo fu arrestato e condotto al giudizio del Sinedrio,  (la massima istituzione ebraica)  dove si difese appassionatamente e non ritrattò le sue convinzioni religiose. Fu condannato a morte nel 35 d.C., trascinato fuori dalle mura della città e lapidato , come stabiliva la Legge Mosaica per i blasfemi.  Morente sotto i colpi degli aguzzini, membri della sua stessa comunità d’origine, affida la propria vita a Dio e come Cristo, chiede a Lui di perdonare i suoi carnefici.
Nella tradizionale iconografia  Stefano Protomartire, il primo martire della Cristianità , indossa  la dalmatica, la veste liturgica dei diaconi,  ma il suo attributo principale sono le pietre della lapidazione, che a volte porta in testa o sulle spalle (Giotto e Crivelli). Nell’incisione lo troviamo esanime nella rigidità della morte, come fosse della stessa sostanza  degli strumenti del suo supplizio, quelle pietre che vorrebbero  ricordare tutti i martiri che, dopo di lui,  lo seguiranno nell’estremo sacrificio e che costituiranno le pietre su cui sarà costruita la Chiesa.  La sua mano ne stringe ancora una, come se anche lui stesso avesse partecipato al proprio martirio e testimonia, nel comtempo, quel perdono che chiese a Dio per i suoi uccisori, poco prima di spirare.

San Pierto Martire,  apparteneva all'Ordine dei Frati Predicatori , fondato da  Domenico di Guzmán, nel 1213, per combattere, in collaborazione della Inquisizione,  i movimenti ereticali  e in primo luogo il Catarismo,  diffusosi a partire dalla Francia meridionale.  Per sradicare questa eresia, la Chiesa, si impegnò in una ventennale crociata (1209-1229), con una devastante ferocia persecutoria. Una crociata combattuta  tra cristiani  in territorio cristiano e considerata da molti storici il primo esempio di  genocidio. L’eresia si era intanto diffusa  anche in Italia, soprattutto in Lombardia dove era ormai  largamente radicata. Nel 1251 il Papa Innocenzo IV   lo nominò inquisitore per le città di Milano e Como, con mandato di reprimere ogni forma ereticale. Il 6 aprile 1252, mentre Pietro si stava recando da Como a Milano, nei pressi di un bosco a Barlassina venne assalito da un sicario, armato dagli eretici,  che lo colpì violentemente alla testa con una roncola, uccidendolo.  L’assassino  si pentì del suo gesto, si rifugiò in un convento, diventò frate domenicano ed ebbe il titolo di beato. Undici mesi dopo la morte  Pietro fu proclamato santo e martire e il suo culto, sostenuto dall’Ordine, si diffuse rapidamente in tutta Italia.  L'iconografia lo raffigura di solito in abito domenicano con un pugnale nel petto e con una roncola, suo attributo principale,  profondamente  conficcata di traverso nella testa, un dettaglio macabro che non può sfuggire all’osservatore e che lo rende subito riconoscibile (Guercino , Bellini, Cima da Conegliano). Nell’incisione le due roncole incrociate, marchiate  dalla croce catara, affondano le lame non nella testa del santo ma nella cupola di San Pietro, simbolo della Chiesa Cattolica e Romana, perché quella era il vero obiettivo da colpire per gli eretici, quella il vero nemico da combattere in quell’attentato che fu l’ennesimo massacro di una sanguinosa crociata durata tre secoli, che cancellò per sempre  i Catari dalla Storia.

Sant'Eustachio ebbe una visione. Durante una battuta di caccia inseguì un cervo che si staccò dal branco. Quando furono soli l'animale gli parlò. Aveva una croce luminosa tra i palchi ed era Cristo che gli chiese si seguirlo nella sua fede. Eustachio scelse il Cristianesimo e fu battezzato con tutta la sua famiglia dal vescovo. Dopo varie e tragiche traversie si ricongiunge ai suoi e riprende servizio come ufficiale nell'esercito romano. Sotto l'imperatore Adriano fu arrestato come cristiano e condannato a morte insieme con la moglie e i figli, dopo essere miracolosamente scampato ai leoni del Colosseo. Il 12 ottobre del 120 d.C. Eustachio e i suoi famigliari morirono dentro un micidiale strumento di esecuzione chiamato il toro di Falaride. Era di bronzo e aveva le forme dell'animale e grande tanto da contenere alcune persone. Sotto veniva appiccato un gran fuoco e i condannati rinchiusi morivano per le fatali ustioni tra atroci sofferenze. Nella tradizione il simbolo di Sant'Eustachio è la testa di cervo che reca una croce tra i palchi come la si vede, per esempio, sul vessillo che regge il Sant'Eustachio di Durer, nella pala d'altare di Paumgartner. Nella incisione le bandiere tra gli enormi palchi sono un richiamo diretto a quell'opera. La testa si è trasformata in una specie di tempio ipogeo con ai lati le grandi corna a ricordo del martirio del santo. A sostituire la croce è Il monogramma racchiuso non nella tradizionale corona, simbolo di vittoria, ma nell'uroboro, simbolo di eternità.

San Longino era il centuriore romano presente alla morte di Cristo sulla croce. Per abbreviarne l'agonia, anzichè spezzare le ossa delle gambe come prescriveva la legge, Longino, come atto di pietà e per accertarne il decesso,  preferisce colpire il costato di Gesù con la punta della sua lancia. Dalla ferita esce del sangue che per miracolo lo guarisce da una infermità agli occhi. Il santo abbraccia la fede cristiana e secondo una leggenda diventa evangelizzatore in Cappadocia e per questo subisce il martirio venendo decapitato.
Tradizionali attributi del santo sono la lancia, che si trasformerà nei secoli in una leggendaria reliquia e l'elmo, come si può osservare, tra le tante rappresentazioni,  nella colossale statua che il Bernini gli ha dedicato in Vaticano. Nell'incisione il simbolo si è moltiplicato a dismisura e da attibuto si è trasformato in strumento di un atroce martirio per il santo o di quel che rimane di lui, una specie di  vuoto guscio mortale, abbandato vicino a quella croce che ha segnato per sempre il suo destino.

























































 

 

 

 

 

Presso Milano, passione di san Pietro da Verona, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori e martire, che, nato l’abito dallo stesso san Domenico; con ogni mezzo si impegnò nel debellare le eresie, finché fu ucciso dai suoi nemici lungo la strada per Como, proclamando fino all’ultimo respiro il simbolo della fede.