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"Simboli e Santi"

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Note dell'autore

 

Il tema conduttore di questo ciclo di acqueforti è il rapporto, multiforme e a volte complesso, tra i simboli e i santi e prende spunto dalla tradizione  iconografica tra Rinascimento e Barocco, in cui i santi e le loro storie  sono una parte integrante.

I santi vengono perlopiù ritatti come candide e innocenti giovanette e come adulti barbuti e non per tutti era ed è facile oggi riconoscerne l’identità. Spesso l’unico modo per identificarli sono i loro simboli , o quelli che vengono chiamati, più propriamente,  gli attibuti iconografici che sempre li accompagnano, cioè gli oggetti  che tengono in mano o che stanno al loro fianco, gli  animali collocati vicino o i capi di abbigliamento. L’attributo per eccellenza per tutti  i martiri è la foglia di palma, simbolo di sacrificio ma  anche di trionfo sul Male e segno  della loro Redenzione.

Questi attributi traggono la loro origine dalle agiografie dei santi e dagli Atti e Passioni dei martiri  in cui sono raccontati, romanzandoli spesso con toni granguignoleschi, il loro sacrificio e tutte le efferate torture e sevizie che l’hanno preceduto .  Tutta questa tradizione verrà raccolta e rielaborata nel 1265 da Jacopo da Varagine, frate domenicano e vescovo di Genova, nel libro chiamato  la Legenda aurea, molto diffuso nel Medioevo tanto da essere considerato uno dei primi bestseller della storia.  Questi  scritti  costituiscono la fonte e l’ispirazione di tutta la tradizione  iconografica europea  che elabora, sull’onda di una  dilagante devozione,  un codice identificativo per la rappresentazione dei  santi  , che avrà valore  dal Medioevo alla modernità. Questo codice  ha lo scopo  di consentire la riconoscibilità dei personaggi  sacri anche ai meno colti degli osservatori, perché  come scriveva Gregorio Magno “la pittura  serve agli analfabeti come la scrittura per chi sa leggere”.

Così,per esempio, l’avvenente ed elusiva Fillide Melandroni, la prostituta nota in tutta Roma per la sua straordinaria bellezza, in Caravaggio diventa Santa Caterina d’Alessandria, per via del suo simbolo, quella ruota dentata strumento della sua tortura  che nel suo martirio, per miracolo, si spezza salvandola . A seguito di questo la santa verrà quindi decapitata con la spada, altro suo simbolo e che infatti si trova nelle sue mani, mentre ai suoi piedi si trova l'immancabile palma.

In questi lavori il punto focale di questo rapporto si sposta decisamente dal santo al suo simbolo, lasciando che  quest’ultimo, nelle sue trasformazioni ed evoluzioni , evochi,  richiami  o alluda al santo che rappresenta, anche in sua assenza. Così nella incisione dedicata a Santa Caterina,la ruota dentata non si trova al suo lato ma in primo piano  ai piedi della santa, a cui essa  è del resto collegata e costituisce  l’elemento fondativo della figura stessa.  Replicando se stessa verso l’alto, muta in un’altra struttura, come a proteggere simbioticamente  quella palma che le cresce vicino.  L’immagine termina con un libro, perché i martiri sono i testimoni,  i veri interpreti del Verbo (vedi anche San Simone) , mentre il volto sfaccettato racchiuso nel grosso volume rimanda alla triplice natura di santa, di martire e di donna.

Anche nella incisione dedicata a San Lorenzo il  suo attributo principale, la graticola su cui fu bruciato vivo,  si  converte  in una complessa struttura reticolare che fa da basamento  e  sostegno ad una specie di  ecumenico abbraccio dalle linee classiche di un vuoto anfiteatro, spesso luogo di supplizio.

In alcuni acqueforti  il simbolo sembra assumere forme ipertrofiche tali  da  occupare quasi totalmente lo spazio prospettico: è il caso di Santa Margherita. La martire, nella notte che precede la sua esecuzione, viene visitata nella cella del carcere dal diavolo nelle forme di drago che la inghiottì. Margherita armata della sola croce squarcia il ventre del mostro e sopravvive al letale confronto. Da questo antico rito di iniziazione, un  passaggio  verso un livello di coscienza superiore  ( vedi Giasone e Giona ma anche Pinocchio) Margherita  da  martire ne uscirà santa ed entrerà a far parte di un ristretto numeri di santi, i 14 santi ausiliatori, cioè quelli che vengono invocati nel momento di maggior pericolo. Lei sarà la santa destinata a proteggere le partorienti. Nella incisione la martire non è colta, come vuole la tradizione (Raffaello e Giulio Romano), nel momento del trionfo sul Male ma nel pieno della lotta con un mostro che, però, non ha nulla di orrifico ma sembra essere un oggetto di scena (la chiavetta), destinato a svolgere comunque un ruolo già preassegnato  e funzionale alla drammatica rappresentazione.

Anche nella incisione di Santa Barbara  il  suo simbolo domina la scena. La santa sembra essere nel mezzo di un confronto cruento con  la torre  nella quale viene segregata da padre.   Armata di quella stessa spada con  cui sarà giustiziata come cristiana, si apre un varco tra le due parti che stanno per cedere alla sua spinta poderosa. Ma la sua testa è essa stessa una torre a ricordare che, anche se Barbara riuscirà nel suo intento, dovrà fare i conti con un nemico interno,  altrettanto solido e resistente quanto la sua prigione.

Anche il simbolo di Sant’Andrea, martirizzato sulla croce che porta il suo nome (una croce a forma di X), è posto al centro e davanti alla stessa figura, contrariamente alla tradizione in cui sta sempre dietro al santo o al suo fianco (Rubens e la statua di Duquesnoy in San Pietro). Nell’incisione  il santo è costretto perforare con delle gallerie  il suo simbolo per proclamare la sua esistenza. Il simbolo, riportato ai suoi piedi ma anche nel cielo, vorrebbe far capire come il suo significato nel tempo sia cambiato: dall’ambito religioso e martilologico della tradizione cristiana  è trasmutato in emblema dell’ignoto e della enigmaticità dell’esistenza (De Chirico, Composizione metafisica). Anche i vagoni ferroviari sono una citazione del moderno in arte  (Magritte, Il tempo trafitto) ma anche una constatazione  che quel simbolo appartiene prosaicamente anche alla nomenclatura del mondo ferroviario.

Anche in Sant’Erasmo, vescovo di Antiochia e santo ausiliatore, il suo simbolo, l’argano, occupa tutto lo spazio centrale. Montato su questa macchina, una specie di  spiedo  (altro suo attributo) raccoglie, arrotolandoli,  gli intestini del martire condannato all’eviscerazione (l’asporartazione degli organi interni), un supplizio spesso rappresentato nella tradizione con inevitabile toni truculenti ed efferati (Sebastiano Ricci, Giacinto Brandi o Nicolas Poussin).  La condanna sembra alludere alla volontà dei persecutori di strappare dal corpo quella fede di cui non capivano  le profonde motivazioni . I lunghi pali sono un’esplicita citazione  delle Storie della vera croce  di Pier della Francesca, quando l’ebreo Giuda viene estratto  dal pozzo in cui era stato gettato, per convincerlo a rivelare il luogo dove era sepolta la croce di Cristo. Gli intestini del martire però trapassano il suo corpo e sembrano provenire da una cavità molto più profonda,  sottostante il marmoreo sarcofago su cui è stato abbandonato,  mentre la sua anima, con ampie volute, volteggia già lontana nel cielo verso quel Paradiso tanto agognato.

 Sant'Elena è il personaggio principale  della sopracitate Storie della vera croce e con la croce è sempre rappresentata.  Anziana madre dell’imperatore Costantino, intraprende, nel 327-328,  un lungo e pericoloso viaggio in Terra Santa nei luoghi della Passione di Gesù,  inaugurando quello che diventerà uno dei pellegrinaggi più famosi della storia. Come un’archeologa ante litteram, vuole ritrovare dopo tre secoli la croce su cui morì  Cristo. La ritroverà e ne porterà un frammento a Roma dove sarà costruita la basilica di Santa Croce in Gerusalemme per costudirlo .
Quello di Sant’Elena non è solo un pellegrinaggio e non è solo una ricerca:  è l’atto consapevole della necessità fondamentale della costruzione simbolica della nuova religione, che individua nella croce il suo significato più distintivo e più profondo.  In questo senso, Sant’ Elena, proprio con quel gesto di ricercare la croce e di innalzarla a simbolo assoluto del Cristianesimo,  è una costruttrice del nuovo Credo e con questo aiuta il la nuova religione ad affermarsi definitivamente nella Storia.

Altro caso di ipertrofia del simbolo è il San Floriano. Il soldato-martire  è stato gettato nel fiume con una  macina da mulino al collo nell’alta Austria, per aver difeso i cristiani. La macina è diventata una mastodontica coppia di ruote di frantoio in preda ad un irrefrenabile moto inerziale, che porterà  il santo alla tragica fine. L’incisione per l’ambientazione (il ponte in tronchi di legno e il fiume) è un debito esplicito al san Floriano di Albrecht Altdorfer anche se in questa non c’è traccia della rassegnata accettazione del santo nella sua gionanile nudità. Nella scena c’è una ambiguità di fondo. Un legionario è trascinato dal moto invincibile delle possenti macine a cui è del resto vincolato ma, nello stesso tempo, non si sa se cerchi disperatamente di governarne in qualche modo il moto o invece lo assecondi ,conscio del suo destino, verso la tragica fatalità che lo aspetta. L’ambiguità forse deriva dal fatto che nel sacrificio  dei santi, per noi moderni,  è difficile distinguere  tra  una imitatio Christi portata alle estreme conseguenze e la tragica pulsione  verso l’immolazione, l’annullamento di sè. 

Questo tema ricorre ache nel San Sebastiano. Ufficiale dell’esercito romano e protettore dei cristiani, nudo come Cristo è martirizzato dalle frecce, a cui sopravviverà per miracolo.Per questo  è invocato come santo taumaturgo in caso di malattie o epidemie, spesso insieme a San Rocco, altro santo guaritore. La tradizione  (per tutti il Mantegna , ma anche Reni) lo rappresenta suo corpo eburneo e dalle forme perfette, sereno  e trionfante su un martirio che dovrebbe essere micidiale. Nell’incisione  che porta il suo nome, più che il santo sembra rappresentato il mausoleo a lui dedicato.  Appeso alla colonna, c’è quel che resta di un nero corpo catafratto, quasi ormai senza vita. Sopra la colonna , ci sono delle volute tentacolari che dovrebbero  rappresentare il potere della Chiesa, che è fondata e si alimenta del  sacrificio dei santi, la cui testimanonianza (martiri)  è fondamentale per la trasmissione del sua credo religioso  che avviene attraverso una sinuosa e inquietante antenna. Nell’altra versione il santo, crivellato dalle frecce su un campo di battaglia, è letteralmente pietrificato dal dolore. Forse lo aspetta un crollo mortale o forse riuscirà ad alzare almeno la testa verso quel piccolissino simbolo di redenzione sulla montagna in lontananza.

Di  San Clemente, santo e Papa,  non c’è invece nessuna traccia. Solo il suo simbolo campeggia nella desolazione di un deserto. La sua presenza è solo evocata dai paramenti con insegne papali e dal ponderoso messale  da cui fuoriesce  l’estremità di un pastorale. La grande ancora di ferro ricorda il suo sacrificio, quando gli fu legata al collo prima di essere  gettato in mare da una nave. La leggenda vuole che nel luogo del martirio il mare ogni anno si ritirasse per alcune miglia,  tanto da rivelare  il sacrario con le sue spoglie, meta incessante di devoti pellegrini.

Anche di Sant’Apollonia non c’è alcuna evidenza, ma è il suo simbolo, il dente, a parlarci di lei. La santa fu vittima di una sommossa anticristiana nella Alessandria d’Egitto del III secolo. La sua Passio racconta il suo supplizio preceduto da torture  durante le quali le furono strappati tutti i denti con le tenaglie. Il molare  femminilmente ingentilito  sembra assediato da una torma scomposta di tenaglie e chele seviziatrici. Il candore  del simbolo e il suo isolamento sono il segno manifesto della sua superiorità e insieme della sua santa intangibilità.

A volte al simbolo accade che si moltiplichi. È il caso di Santa Agata, patrona di Catania. Il racconto del suo sacrificio  narra che tra le tante torture le fossero strappati o tagliati i seni.  È per questo che nella tradizione iconografica, da Piero della Francesca a Zurbaran, la santa  è rapprentata con la palma del  martirio  in una mano mentre con l’alta regge un piatto su cui si trovano i seni recisi, come una piccola natura morta.  In questa incisione i simboli si sono quadriplicati  così come le braccia, rendendo  quasi inevitabile un accostamento con la dea indiana  Kali e la  greca Demetra di Efeso, in una rappresentazione sincretica di una vergine martire cristiana che è, nello stesso tempo, una divinità pagana misteriosa e potenzialmente pericolosa, come il vulcano nello sfondo. La moltiplicazione del simbolo è tanto irrefrenabile  che ne osservano visibili cenni anche nelle cupole  delle torri della cinta muraria e nelle alte nuvole del cielo.

Anche in San Simone si assiste allo stesso fenomeno della moltiplicazione del simbolo. Simone, apostolo e santo, è un pescatore di Galilea, da qui il simbolo della barca. Diventato evangelico “pescatore di anime”, (anche il libro è un suo simbolo) subisce il martirio nella lontana Armenia. Il suo corpo viene fatto a pezzi con una sega, probabilmente come quella dei boscaioli di un tempo. La triplicazione del simbolo vuole sottolineare l’accanimento del martirio di un venerando santo trasmutato  in albero, le cui radici affondano proprio in quella barca  in riva a quel  lago, che  lasciò per  sempre seguendo Gesù.

L’immagine di San Pietro scaturisce invece  dall’accostamento  delle chiavi, suo simbolo principale e la cupola della chiesa più importante della cristianità. Le chiavi inserite nelle toppe sembrano alludere al fatto che non aprano il regno dei cieli ma  qualche misterioso segreto  costodito nella sacra istituzione, mentre quella del santo sembra  poter schiudere le profondità del suo pensiero teologico rappresentato dai libri.

San Dionigi sembra non avere simbolo ma in realtà e la sua stessa testa ad  essere il suo distintivo emblema. Il santo è stato vescovo di Parigi (Saint Denis) e martirizzato a Montmartre (Monte dei martiri). È un santo cefaloforo, cioè un santo di cui si narra  nelle agiografie che, dopo la decapitazione, avrebbe raccolto la propria testa mozzata, reggendola con le mani. La postura dell’immagine del santo,  goticamente vestito sotto un nero mantello, con un piede puntellato su un basso parapetto di pietra, è un  richiamo diretto al San Floriano di Francesco del Cossa, che era collocato nello scomparto sinistro in alto del Polittico Griffoni.
 Il santo regge sul ginocchio la propria testa con  mitra vescovile  e maschera antigas. Difronte alle repressione romana, i primi cristiani furono dei combattenti non violenti e dovettero affrontare le mortifere  e velenose  persecuzioni di un nemico che ignorava le ragioni profonde del loro comportamento. La maschera di San Dionigi è a sua volta il simbolo  questa paziente e ferma resistenza cristiana, che permetterà alla nuova religione di trionfare sui persecutori.

La tradizionale rappresentazione di Santa Lucia non è diversa da quella di Sant’Agata (spesso ritatte insieme). Nel martirio le sono stati strappati gli occhi che mostra come suo simbolo in un piatto o una coppa. Per l’incisione che porta il suo nome il punto di riferimento iconografico è ancora Francesco del Cossa, che ha ritratto Santa Lucia nello scomparto destro del polittico già citato. In questo quadro  la santa, con un’ originalissima invenzione,  tiene nella mano sinistra uno stelo di fiore da cui fuoriescono  non due boccioli ma i suoi  stessi occhi. Quello stelo con gli occhi della santa si trovano anche nell’incisione, in un piccolo vaso trasparente vicino alla figura. Nella scena  rappresentata, la postura della santa e la scala  appoggiata al cornicione sono delle citazioni dalla Melancolia di Durer.  La martire,  priva della vista e con il volto nascosto  dai bendaggi che coprono la mutilazione, sembra voler  guardare attraverso  un altro occhio posato sulle sue ginocchia ( con al centro l’occhio di Horus)  per vedere cose che solo l’anima può vedere.

 Santa Cecilia, martire e patrona della musica, viene  quasi sempre rappresentata con  un piccolo organo portativo nelle mani o al suo fianco (Raffaello, Orazio Gentileschi), anche se il motivo di questa associazione rimane tuttora incerto. L’incisione  è un esplicito omaggio all’arte di Arcimboldo, fondata sulla combinazione di oggetti di un’ unica area semantica, collegati  metaforicamente al soggetto rappresentato.  In questo modo l’immagine della santa è costruita unicamente con un accumolo  di strumenti musicali mentre il suo simbolo, le canne d’organo, si trasformano in una  spesie di quinta vegetale della scena.

Come altri santi (Santa Agnese e Sant’Antonio) anche San Rocco ha per simbolo un animale, un cane. Pellegrino francese (da qui i simboli del mantello,del bastone, del cappello e della fiaschetta)  è diretto a Roma, dove  cura  e guarisce i malati dell’epidemia peste che infuriava in Italia nella seconda metà del Trecento. Durante il viaggio di ritorno si ammala della terribile malattia e  si isola in una grotta per non contagiare altre persone.  A salvarlo dalla malattia e dall’inedia  fu un cane  che provvide quotidianamente a partargli del pane.  Il più invocato santo taumaturgo, spesso rappresentato con San Sebastiano,  è ritratto  nella tradizione con i suoi simboli, mentre offre alla vista dello spettatore la coscia nuda  a mostrare il bubbone  comparsogli  vicino all’inguine. Nella incisione, il santo-viaggiatore  è bloccato nei movimenti dal morbo contratto e le sue ferite sono esposte come cavità di un vecchio tronco malato. Il cane salvifico con l’insegna di San Giacomo  viene dal  cielo ed  è appena atterrato in suo soccorso portando quel pane che lo guarirà.

Anche  Santa Agnese  ha come simbolo un animale,  l’agnello, perché, come il piccolo animale simbolo a sua volta del sacrificio di Cristo, viene  sgozzata con un colpo di spada alla gola. Santa romana di nobili origini, prima della esecuzione finale  viene condannata al rogo ma le fiamme, per miracolo,  si divisero sotto il suo corpo e  i capelli le crebbero  a coprirne la nudità.  L’agnello tra le sue braccia ha le zampe anteriori legate, richiamo all’Agnus Dei di Zurbaran, ma ha anche le forme di una sonda spaziale che dalle profondità dell’universo  è  approdata sul pianeta sbagliato e tra le braccia di una donna con cui condividere lo stesso destino.
San Biagio, vescovo armeno, fu martirizzato nel 316 tre anni dopo l’Editto di Milano, che concedeva la libertà di culto ai cristiani. I suoi torturatori  straziarono il suo corpo  utilizzando  dei pettini in ferro, che si usavano per cardare la lana. Un’ulteriore condanna sembra essere quella di portare questi enormi e pesanti strumenti di tortura sulla sue vecchie spalle, nell’ultimo tragitto che percorre appoggiandosi  ad un bastone che termina con due candele intrecciate (altro suo attributo), la cui luce asseconda il suo passo incerto e stanco.

San Cristoforo è come san Biagio un santo ausiliatore e patrono dei viaggiatori. Era un gigante traghettatore che un giorno aiutò un bambino a passare sull’altra riva del  fiume. Il gigante se lo caricò sulle spalle e cominciò il tragitto; ma più si inoltrava nel fiume, più il peso del fanciullo aumentava tanto che con molta fatica  riuscì a raggiungere la riva. Lì il bambino rivelò la propria identità: era Gesù e il suo peso che il gigante (Cristoforo in greco  significa “portatore di Cristo”) aveva sostenuto era quello del mondo intero salvato dal sangue di Cristo. Questo incontro lo trasformerà Cristoforo in evangelizzatore e poi martire.
 Ma forse in quell’attraversamento  è  accaduto qualcosa di inaspettato e  di  completamente imprevisto. Quel viaggio così travagliato non è stato solo una difficile prova attraverso  uno spazio fisico pericoloso ma anche un misterioso  passaggio  temporale. Il gigante, giunto all’approdo, da colosso che era  si  ritrova vecchio e ischeletrico, mentre il bambino si è trasformato in trionfante adulto. Tutte e due, però, non potranno sfuggire al tragico sacrificio  a cui sono destinati.