Presentazione del ciclo "Simboli e Santi"
“Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi,dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi
dove sono vissuti i fratelli.
Pier Paolo Pasolini, da “Poesia
in forma di rosa”.
Il tema conduttore di questo piccolo ciclo di acqueforti è
il rapporto, multiforme e a volte complesso, tra i simboli e i santi e trae ispirazione dalla tradizione iconografica tra Rinascimento e Barocco, in
cui i santi e le loro storie sono una
parte integrante.
I santi vengono perlopiù ritatti come candide e innocenti giovanette e come
adulti barbuti e prestanti e non per
tutti era ed è facile riconoscerne l’identità. Spesso l’unico modo per
identificarli sono i simboli che sempre li accompagnano e che in tanti casi hanno a che fare con il
loro martirio.
Così l’avvenente ed elusiva Fillide Melandroni, la prostituta nota in tutta Roma
per la sua straordinaria bellezza, in Caravaggio diventa Santa Caterina
d’Alessandria, per via del suo simbolo, quella ruota dentata strumento della
sua tortura che nel suo martirio, per
miracolo, si spezza salvandola . A seguito di questo la santa verrà quindi decapitata
con la spada, altro suo simbolo e che infatti si trova nelle sue mani.
In questi lavori il punto focale di questo rapporto si sposta decisamente dal
santo al suo simbolo, lasciando che quest’ultimo,
nelle sue trasformazioni ed evoluzioni , evochi o richiami il santo che
rappresenta. Così nella incisione dedicata a Santa Caterina, la ruota dentata muta in un’altra struttura replicando
se stessa in altezza dando origine ad
una figura che termina con un libro, perché i santi sono i veri interpreti del
Verbo (vedi anche San Simone).
Anche nella incisione dedicata a San
Lorenzo il suo simbolo, la graticola
su cui fu bruciato vivo, si converte in una struttura reticolare che fa da sostegno ad un ecumenico
abbraccio dalle linee classiche di un vuoto teatro.
In alcuni acqueforti il simbolo sembra
assumere forme ipertrofiche tali da occupare quasi totalmente lo spazio
prospettico. È il caso di Santa Margherita. La santa, nella notte
che precede la sua esecuzione, viene visitata nella cella del carcere dal
Diavolo nelle forme di drago che la inghiottì. Margherita armata della sola
croce squarcia il ventre del mostro e sopravvive. Da questo antico rito di
iniziazione, un passaggio verso un livello di coscienza superiore ( vedi Giasone e Giona ma anche Pinocchio)
Margherita da martire ne uscirà santa ed entrerà a far
parte di un ristretto numeri di santi, i 14 santi ausiliatori, cioè quelli che
vengono invocati nel momento di maggior pericolo. Lei sarà la santa destinata a
proteggere le partorienti. Nella incisione la martire non è colta, come vuole
la tradizione (Raffaello e Giulio Romano), nel momento del trionfo sul Male ma
nel pieno della lotta con un mostro che, però, non ha nulla di orrifico ma
sembra essere un oggetto di scena (la chiavetta), destinato a svolgere comunque
un ruolo già preassegnato e funzionale
alla sacra rappresentazione.
Anche nella incisione di Santa Barbara il suo simbolo domina la scena. La santa sembra
essere nel mezzo di un confronto cruento con la torre nella quale viene segregata da padre. Armata
di quella stessa spada con cui sarà
giustiziata come cristiana, si apre un varco tra le due parti che stanno per
cedere alla sua spinta poderosa. Ma la sua testa è essa stessa una torre a
ricordare che, anche se Barbara riuscirà nel suo intento, dovrà fare i conti
con un nemico interno, altrettanto solido e resistente quanto la sua
prigione.
Anche il simbolo di Sant’Andrea, martirizzato
sulla croce che porta il suo nome (una croce a forma di X), è posto al centro e
davanti alla stessa figura, contrariamente alla tradizione in cui sta sempre
dietro al santo (Rubens e la statua di Duquesnoy in San Pietro).
Nell’incisione il santo è costretto
perforare con delle gallerie il suo
simbolo per proclamare la sua esistenza. Il simbolo, riportato ai suoi piedi ma
anche nel cielo, vorrebbe far capire come il suo significato nel tempo sia
cambiato: dall’ambito religioso e martilologico della tradizione cristiana è trasmutato in emblema dell’ignoto e della
enigmaticità dell’esistenza (De Chirico, Composizione
metafisica). Anche i vagoni ferroviari sono una citazione del moderno in
arte (Magritte, Il tempo trafitto) ma anche una constatazione che quel simbolo appartiene prosaicamente anche
alla nomenclatura del mondo ferroviario.
Altro caso di ipertrofia del simbolo
è il San Floriano. Il
soldato-martire è stato gettato nel
fiume con una macina da mulino al collo
nell’alta Austria, per aver difeso i cristiani. La macina è diventata una
mastodontica coppia di ruote di frantoio in preda ad un irrefrenabile moto
inerziale, che porterà il santo alla
tragica fine. L’incisione per l’ambientazione (il ponte in tronchi di legno e
il fiume) è un debito esplicito al san Floriano di Albrecht Altdorfer anche se
in questa non c’è traccia della rassegnata accettazione del santo nella sua
gionanile nudità. Nella scena c’è una ambiguità di fondo. Un legionario è
trascinato dal moto invincibile delle possenti macine a cui è del resto vincolato
ma, nello stesso tempo, non si sa se cerchi disperatamente di governarne in
qualche modo il moto o invece lo assecondi ,conscio del suo destino, verso la
tragica fatalità che lo aspetta. L’ambiguità forse deriva dal fatto che nel
sacrificio dei santi, per noi moderni, è difficile distinguere tra una
imitatio Christi portata alle estreme
conseguenze e la tragica pulsione verso
l’autodistuzione, l’annullamento di sè.
Questo tema ricorre ache nel San
Sebastiano. Ufficiale dell’esercito romano e protettore dei cristiani, nudo
come Cristo è martirizzato dalle frecce, a cui sopravviverà per miracolo.Per
questo è invocato come santo taumaturgo
in caso di malattie o epidemie, spesso insieme a San Rocco, altro santo
guaritore. La tradizione (per tutti il
Mantegna , ma anche Reni) lo rappresenta suo corpo eburneo e dalle forme
perfette, sereno e trionfante su un
martirio che dovrebbe essere micidiale. Nell’incisione che porta il suo nome, più che il santo
sembra rappresentato il mausoleo a lui dedicato. Appeso alla colonna, c’è quel che resta di un nero
corpo catafratto, quasi ormai senza vita. Sopra la colonna , ci sono delle
volute tentacolari che dovrebbero
rappresentare il potere della Chiesa, che è fondata e si alimenta
del sacrificio dei santi, la cui
testimanonianza (martiri) è fondamentale
per la trasmissione del sua credo religioso
che avviene attraverso una sinuosa e inquietante antenna. Nell’altra
versione il santo, crivellato dalle frecce su un campo di battaglia, è letteralmente
pietrificato dal dolore. Forse lo aspetta un crollo mortale o forse riuscirà ad
alzare almeno la testa verso quel piccolissino simbolo di redenzione sulla
montagna in lontananza.
Di San
Clemente, santo e Papa, non c’è invece nessuna traccia. Solo il suo
simbolo campeggia nella desolazione di un deserto. La sua presenza è solo
evocata dai paramenti con insegne papali e dal ponderoso messale da cui fuoriesce l’estremità di un pastorale. La grande ancora
di ferro ricorda il suo sacrificio, quando gli fu legata al collo prima di
essere gettato in mare da una nave. La
leggenda vuole che nel luogo del martirio il mare ogni anno si ritirasse per
alcune miglia, tanto da rivelare il sacrario con le sue spoglie, meta
incessante di devoti pellegrini.
A volte al simbolo accade che si moltiplichi. È il caso di Santa Agata, patrona di Catania. Il racconto del suo sacrificio narra che tra le tante torture le fossero
strappati o tagliati i seni. È per
questo che nella tradizione iconografica, da Piero della Francesca a Zurbaran,
la santa è rapprentata con la palma
del martirio in una mano mentre con l’alta regge un piatto su
cui si trovano i seni recisi, come una piccola natura morta. In questa incisione i simboli si sono
quadriplicati così come le braccia,
rendendo quasi inevitabile un
accostamento con la dea indiana Kali e
la greca Demetra di Efeso, in una
rappresentazione sincretica di una vergine martire cristiana che è, nello
stesso tempo, una divinità pagana misteriosa e potenzialmente pericolosa, come
il vulcano nello sfondo. La moltiplicazione del simbolo è tanto
irrefrenabile che ne osservano visibili
cenni anche nelle cupole delle torri della
cinta muraria e nelle alte nuvole del cielo.
Anche in San Simone si assiste allo
stesso fenomeno della moltiplicazione del simbolo. Simone, apostolo e santo, è
un pescatore di Galilea, da qui il simbolo della barca. Diventato evangelico “pescatore di anime”, (anche il libro è
un suo simbolo) subisce il martirio nella lontana Armenia. Il suo corpo viene
fatto a pezzi con una sega, probabilmente come quella dei boscaioli di un
tempo. La triplicazione del simbolo vuole sottolineare l’accanimento del martirio
di un venerando santo trasmutato in
albero, le cui radici affondano in quella barca in riva a quel lago, che lasciò per sempre seguendo Gesù.
L’immagine di San Pietro scaturisce
inveve dall’accostamento delle chiavi, suo simbolo principale e la
cupola della chiesa più importanate della cristianità. Le chiavi inserite nelle
toppe sembrano alludere al fatto che non aprano il regno dei cieli ma che forse qualche misterioso ingranaggio della
sacra istituzione, mentre quella del santo sembra poter schiudere le profondità del suo pensiero
teologico.
San Dionigi sembra non avere simbolo
ma in realtà e la sua stessa testa ad
essere il suo distintivo emblema. Il santo è stato vescovo di Parigi (Saint Denis) e martirizzato a Montmartre
(Monte dei martiri). È un santo cefaloforo,
cioè un santo di cui si narra nelle
agiografie che, dopo la decapitazione, avrebbe raccolto la propria testa
mozzata, reggendola con le mani. La postura dell’immagine del santo, goticamente vestito sotto un nero mantello,
con un piede puntellato su un basso parapetto di pietra, è un richiamo diretto al San Floriano di Francesco
del Cossa, che era collocato nello scomparto sinistro in alto del Polittico Griffoni.
Il santo regge sul ginocchio la propria
testa con mitra vescovile e maschera antigas. Difronte alle repressione
romana, i primi cristiani furono dei combattenti non violenti e dovettero affrontare
le mortifere e velenose persecuzioni di un nemico che ignorava le
ragioni profonde del loro comportamento. La maschera di San Dionigi è a sua
volta il simbolo questa paziente e ferma
resistenza cristiana, che permetterà alla nuova religione di trionfare sui
persecutori.
La tradizionale rappresentazione di Santa
Lucia non è diversa da quella di
Sant’Agata (spesso ritatte insieme). Nel martirio le sono stati strappati gli
occhi che mostra come suo simbolo in un piatto o una coppa. Per l’incisione che
porta il suo nome il punto di riferimento iconografico è ancora Francesco del
Cossa, che ha ritratto Santa Lucia nello scomparto destro del polittico già
citato. In questo quadro la santa, con
un’ originalissima invenzione, tiene
nella mano sinistra uno stelo di fiore da cui fuoriescono non due boccioli ma i suoi stessi occhi. Quello stelo con gli occhi
della santa si trovano anche nell’incisione, in un piccolo vaso trasparente
vicino alla figura. Nella scena rappresentata,
la postura della santa e la scala
appoggiata al cornicione sono delle citazioni dalla Melancolia di Durer. La
martire, priva della vista e con il
volto nascosto dai bendaggi che coprono
la mutilazione, sembra voler guardare
attraverso un altro occhio per vedere
cose che solo l’anima può vedere.
Santa
Cecilia, martire e patrona della musica, viene quasi sempre rappresentata con un piccolo organo portativo nelle mani o al
suo fianco (Raffaello, Orazio Gentileschi), anche se il motivo di questa
associazione rimane tuttora incerto. L’incisione è un esplicito omaggio all’arte di Arcimboldo,
fondata sulla combinazione di oggetti di un’ unica area semantica,
collegati metaforicamente al soggetto
rappresentato. In questo modo l’immagine
della santa è costruita unicamente con un accumolo di strumenti musicali mentre il suo simbolo,
le canne d’organo, si trasformano in una spesie di quinta vegetale della scena.
Come altri santi (Santa Agnese e Sant’Antonio) anche San Rocco ha per simbolo un animale, un cane. Pellegrino francese
(da qui i simboli del mantello,del bastone, del cappello e della
fiaschetta) è diretto a Roma, dove cura e
guarisce i malati dell’epidemia peste che infuriava in Italia nella seconda
metà del Trecento. Durante il viaggio di ritorno si ammala della terribile
malattia e si isola in una grotta per
non contagiare altre persone. A salvarlo
dalla malattia e dall’inedia fu un
cane che provvide quotidianamente a
partargli del pane. Il più invocato
santo taumaturgo, spesso rappresentato con San Sebastiano, è ritratto
nella tradizione con i suoi simboli, mentre offre alla vista dello
spettatore la coscia nuda a mostrare il
bubbone comparsogli vicino all’inguine. Nella incisione, il
santo-viaggiatore è bloccato nei
movimenti dal morbo contratto e le sue ferite sono esposte come cavità di un
vecchio tronco malato. Il cane salvifico con l’insegna di San Giacomo viene dal
cielo ed è appena atterrato in
suo soccorso portando quel pane che lo guarirà.
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